ARTICOLI SULLA RELIGIONE CRISTIANA

sabato 28 febbraio 2009

CRISTIANESIMO PAOLINO O GIUDAISMO-PRIMA PARTE

La Rivoluzione dello Spirito.

Cristianesimo paolino o Giudaismo

Prof. Luca Fantini, TerraSantaLibera.org






Parte I


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Le tesi di W. D. Davies e di Boyarin, per citare alcune tra le più significative, agli studiosi sono certamente note. In un importante articolo del 1977[1], Davies sosteneva che la conversione di Paolo andava concepita non come il passaggio da una fede religiosa ad un’altra, ma segnava il tentativo di portare a compimento, mediante l’accettazione del messaggio del Cristo Gesù, quella tradizione giudaica nella quale Egli era cresciuto. Sosteneva Davies, non a caso, che le proposizioni paoline riguardo i giudei e il giudaismo erano discussioni interne alla comunità e alla visione giudaiche[2].

L’unità in Cristo, su cui Paolo spesso si soffermava, per Davies non eliminava affatto l’elemento etnico, la differenza etnica, dato che le specificità etniche venivano in tal caso conservate[3].

Boyarin riprendeva e sviluppava invece le tesi della teologia liberale del diciannovesimo secolo, fondate sulla concezione del giudaismo diasporico come giudaismo ellenizzato, tollerante, “liberale”. Boyarin riconosceva immediatamente (pag. 1[4]) di essere – da ottimo talmudista quale è - inesperto negli studi neotestamentari e paolini, ma nonostante questo formulava una interessante tesi, che finiva per fare del Cristianesimo paolino una religione sorta su un comune retroterra di pensiero costituito dal medioplatonismo giudaico di lingua greca, caratterizzata dalla tensione conoscitiva e emozionale per l’Uno primordiale, che sembrava poi assumere nella visione paolina caratteri dualistici e simbolico-allegorici affini a quelli di Filone[5].

Per Boyarin, Paolo era dunque un maturo prodotto della diaspora greca, un giudeo ellenista radicale, la cui visione era dualista come quella filoniana, sebbene Paolo non fosse stato proprio un platonico[6].

Partendo ora proprio da quanto affermava (a mio avviso, in tal caso, a ragione) il Davies, ossia che l’essenza profonda della visione spirituale paolina era fondata sul riconoscimento dello “svelamento” messianico del Cristo, si può già notare un elemento centrale ed irriducibile. Il Cristo (nella concezione del mondo paolina) era il divino Salvatore dell’intero genere umano, il Logos di cui si parlava in apertura del Vangelo giovanneo. Era l’alfa di una nuova creazione cosmologica ed escatologica, molto più del solo Messia di Israele. Si aveva già un centrale punto di discontinuità, di rottura metafisica con la tradizione giudaica.

Cristo, per Paolo, è il signore universale: il salvatore dei gentili come dei giudei. I giudei in quanto tali non sono ancora nella nuova creazione: devono entrarvi[7].

Tra tutti gli autori neotestamentari, Paolo era quello che maggiormente usava, in senso peraltro più pregno di significato spirituale, il titolo kùrios. L’esperienza di Damasco, quale esperienza del Risuscitato, era anche certamente una luminosa esperienza della signoria, ossia della cosmica potenza del Cristo-Logos. Per i cristiani delle origini, come è noto, non vi poteva essere esperienza della Risurrezione del Cristo che non fosse al tempo medesimo esperienza della solare potenza cosmica del Logos che ha sconfitto ed annichilito le tenebrose forze della morte.

L’esperienza del Risorto diveniva chiaramente il centro della teologia mistica paolina. Di questa direzione si aveva, evidentemente, chiara manifestazione in uno dei più significativi vertici cristologici dell’intero Nuovo Testamento, ossia l’inno della Lettera ai Filippesi, dove il percorso kenotico del Cristo raggiungeva, nel momento di massima umiliazione (di obbedienza fino a morte, fino a morte di croce), la “sovraesaltazione” e, dunque, il Nome di Signore (“Gesù Cristo Signore”) - nome inesprimibile primordiale in quanto Verbo ineffabile sopra di ogni nome – assurgeva alla gloria del Padre. Per Paolo, come per i primi cristiani, l’unico Dio, il Padre, aveva diviso la sua signoria cosmica e celeste con il Cristo “esaltato”. Sviluppando le immagini di “gloriosa esaltazione” in questo inno, Paolo attribuiva al Cristo caratteristiche e poteri che non erano affatto quelli del Messia di Israele ma quelli del Dio-Padre. Cristo, il Logos, diveniva l’unico signore e a lui venivano conferiti il potere come cosmica potenza e la gloria eterna. Al riguardo, il Capes sottolinea che con Paolo ha inizio un processo metafisico di assoluta deificazione del Cristo arrivando a affermare che non vi sarebbe una vera distinzione tra la cristologia paolina e la cristologia giovannea[8].

Così i cristiani autentici, non appartenevano, nella concezione paolina, solo al Padre, ma anche e soprattutto al Cristo (“Voi siete di Cristo”, I Cor. 3,23). E in Cristo, come ribadiva ancora Paolo (Gal 3,28), non c’è più né giudeo né greco: non vi è dunque differenza etnica da salvaguardare e assolutizzare, ma la tensione spirituale in vista della cristificazione, ossia della salvezza spirituale, diviene la vera milizia cristiana: “In realtà, pur camminando nella carne, noi non militiamo secondo la carne, giacchè le armi della nostra milizia non sono carnali, ma potenti al cospetto di Dio, tanto da abbattere le fortezze” (2 Cor. 10,3-6). Il privilegio giudaico era necessariamente superato quale segno di una ricaduta nell’antica schiavitù, in tale visione. La salvezza, che derivava chiaramente dalla comunione con lo spirito Logos, con il Cristo risorto, era destinata sia ai gentili sia ai giudei. Essa non derivava in nessun caso dalla legge giudaica, che, come è evidente, non poggiava affatto sulla fede in Cristo[9].

Paolo poteva così essere apostolo dei pagani (Gal. 2,9). Proprio perché nessuno, per l’apostolo, poteva essere giusto – di fronte al Padre – per mezzo delle mere opere di legge; la retta giustizia andava conquistata mediante il principio della Fede, che è fede nel Risorto, dunque nella vittoria sulla necessità naturale della morte e della materia. Nella concezione paolina, la Fede è la volontà solare, il coraggio metafisico del discepolo di forzare – fino ad annientare – la propria natura psicosomatica, per vivificare l’essenza immortale pneumatica dell’Io sono. Paolo ad Atene dipingeva tale esperienza sovrannaturale con le parole: “…..in Lui infatti viviamo, ci muoviamo e siamo” ( Atti. 17,28). Cristo è infatti il fine o, ancor meglio, la fine della Legge (Rom, 10, 4). Cristo aveva compiuto l’autentica rivoluzione cosmologica ed escatologica in quanto aveva sostituito la Legge. La via dell’Amore e dello Spirito, nell’apostolato paolino, aveva ragione del formalismo etico legalistico e del naturalismo schiavistico meramente basato su elementi ereditari o etnici. L’autentica circoncisione non era quella che appariva visibilmente nella carne, ma quella del cuore, quella che si realizzava nello spirito, non nella lettera (Rom. 2,28-29).

Il popolo di Dio, l’Israele di Dio, nella rivoluzione assiale compiuta da Paolo diveniva, il popolo cristiano nella sua totalità.

La cristianità paolina non dipendeva, appunto, dalla legge e dalla circoncisione ma dalla Fede nel Risorto e dalla volontà solare di sperimentare l’eroica via della passione, morte ed esaltazione-Risurrezione, quale folgore pentecostale che portasse dalla potenza all’atto puro continuo la presenza dello Spirito Santo in ogni singolo cristiano.

Allo stesso modo, la tesi di Boyarin finisce per scontrarsi con alcuni dati di fatto. La teologia cristologica paolina è, in realtà, veramente poco influenzata dall’ellenismo.

Se già gli ellenisti di Luca non sono affatto giudei “liberali”, quindi poco ortodossi, ancor meno lo è Paolo, che non è neppure propriamente un ellenista, bensì….un fariseo zelante della legge[10].

Mentre infatti, i giudei diasporici accoglievano solamente timorati di Dio e proseliti, ossia gentili che aderendo alla legge mosaica, si avvicinavano in qualche modo al giudaismo, Paolo e gli altri evangelizzatori cristiani attuavano nella storia una rivoluzione radicale e uno spostamento di paradigma. L’ingresso nel popolo di Dio era infatti consentito a tutti coloro che si mostravano pronti a vivere e realizzare (entro se stessi) l’esperienza della passione, della morte mistica e della Risurrezione.

Grazie a Paolo, l’apostolo dei gentili (Gal. 1,16), iniziavano ad apparire comunità che si possono ben chiamare pagano-cristiane, come in Galazia, come a Tessalonica, come a Corinto; le chiese paoline erano composte in larga maggioranza da gentili[11].

Nelle comunità spirituali paoline (autentiche comunità “celesti” – Fil. 3,20 - in cui erano presenti e giudei e gentili, comunità il cui unico reale discrimine era da vedersi nella volontà assoluta del discepolo lottatore in Cristo – il “buon soldato di Cristo” di cui Egli parla, 2 Tim. 2, 3-4 - di farsi consapevole “servo del Logos”, prigioniero del Cristo, di saper così portare l’armatura spirituale fino al supremo sacrificio) si abbandonavano i segni tradizionali di rituale demarcazione della comunità giudaica, si realizzava un clima di totale indipendenza dalla comunità giudeocristiana di Gerusalemme, si accresceva infine il forte distacco con le comunità giudaiche stesse.

La comunità spirituale paolina era infatti la nuova entità, il terzo genere, tertium genus, che si instaurava con una celeste legittimazione tra le comunità giudaiche e quelle pagane. Come sostiene Meeks[12], già molto prima della fine del primo secolo, le comunità paoline (che mai furono, come precisa l’autore, “una setta del giudaismo”) erano socialmente e spiritualmente indipendenti, nelle città dell’impero, dalle comunità giudaiche. L’apostolo era profondamente interessato alla relazione metafisica tra la Cristianità e l’ “Israele di Dio”, il quale, come precisa sempre Sanders[13], non si identificava affatto con l’Israele etnico, ma con la comunità spirituale cristificata nel suo stadio escatologico, finale. Risultano così fuori luogo, in definitiva, gli astratti apparentamenti che si vorrebbero vedere tra la teologia paolina e, anche, lo stesso giudaismo ellenistico, in quanto, il dualismo paolino non è statico e stabile ma assolutamente aperto ad un eventuale “monismo dinamico” per quegli atleti di Cristo i quali, superando l’antica alleanza fondata sulla Legge, sappiano risolvere e fronteggiare le forze del male e della morte:

In realtà, per la Legge io sono morto alla Legge per vivere a Dio: con Cristo io sono stato crocifisso! Ormai non vivo più io, ma è Cristo che vive in me; quella vita poi che vivo nella carne, la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me[14].

Dunque, Paolo operava una autentica rivoluzione metafisica totalmente fondata sulla ineffabile via del Cristo-Logos, centrata sulla rottura spirituale con due fondamentali pilastri del giudaismo del suo tempo. In primo luogo, affermando che il patto è stato trasferito da Abramo a Cristo, e sostenendo che il patto si può ben estendere a coloro che sono in Cristo pur non essendo giudei, Paolo negava di fatto e apertamente l’elezione di Israele. Ancora, specificando che attraverso la Fede e la comunione con il Cristo Risorto, e non semplicemente, accettando la legge, si entrava a far parte del popolo di Dio, Egli operava una ulteriore fondamentale rottura con il giudaismo.

Radicalizzando, anche mediante la sua missione che si concludeva nel martirio (molto probabilmente dovuto, come è scritto, all’“iniziativa dei giudei della capitale… con la connivenza dei giudeo-cristiani della chiesa romana” che non vedevano certamente di buon occhio la sua attività missionaria che faceva leva sulla libertà dalla legge[15]) questa “rivoluzione dello Spirito”, Paolo finiva per portare a compimento l’inevitabile divisione tra cristianesimo e giudaismo, con una scelta ardita che apriva degli spazi che avrebbero avuto immense risonanze metafisiche ed altrettanto importanti conseguenze storiche. Che riassumo infine in tre brevi punti.

a) Il cristianesimo paolino rimane un insuperato modello ascetico. Una “rivoluzione dello Spirito”, in cui l’esperienza interiore (ma ben più concreta e “reale” della realtà sensibile esteriore) della passione, della morte mistica e della Resurrezione è al centro. Non l’intellettualismo, non l’elemento dogmatico-confessionale. Questa via è massimamente eroica, in quanto porta alla comunione pneumatica con il Cristo, passando tramite le più radicali prove dell’anima e, talvolta, anche del corpo. Prove terribili. L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito divino cristico; esse sono follia per lui, ed egli non è capace di intenderle, in quanto solo chi possiede l’intuizione spirituale può comprenderle e giudicarle. L’uomo spirituale o pneumatico raggiunge invece, tramite queste dure prove, il pensiero del Cristo (1 Cor. 2,16). La conoscenza diviene così, nella via paolina, liberazione in quanto libertà dal dominio dell’uomo naturale o psicosomatico e trionfo spirituale dell’Io vero ossia: “non io ma il Cristo in me”. Un’autentica rivoluzione dello spirito, la più eroica e ardua in quanto finalizzata alla vittoria sulla morte ed alla risurrezione poiché “…non tutti certo moriremo ma tutti saremo trasformati” (1 Cor. 15,51). E il corpo fisico allora si trasmuterà in corpo glorioso, adamantino, immortalante. Corpo di Resurrezione.

b) La via paolina abbatte assolutamente l’astratta necessità della legge giudaica. La legge giudaica è schiavitù; essa deriva dall’antica Alleanza, la legge del monte Sinai, che genera nella schiavitù, rappresentata da Agar. E’ la “Gerusalemme attuale” il simbolo di tale schiavitù, diceva anche allora l’apostolo (Gal. 4,26)! L’antica Alleanza è nata dalla carne, è partorita nella schiavitù e dunque nel materialismo metafisico. Non può conoscere la libertà spirituale. Il Cristo è la libertà dello spirito. La legge è ormai, dopo l’avvento cristico, un mero pedagogo che ci ha condotto al Cristo ed ha esaurito dunque completamente la sua funzione.

c) Il dominio assoluto, astratto e trascendentistico (ma non realmente trascendente) della legge, è quindi il giogo della schiavitù abbattuto sull’umanità. Chi si fa circoncidere, chi osserva la legge, non ha nulla a che fare con Cristo. “Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla” (Gal. 5,2). I seduttori giudaizzanti, che annullano il cosmico scandalo della Croce, che turbano la retta via dei discepoli cristiani, dovrebbero farsi mutilare (Gal. 5,12). In seguito andranno affrontate le visioni paoline espresse su Israele nella Lettera ai romani, ma qui va ribadito che la visione spirituale paolina, basata sul superamento della legge, che è tutta piegata sulla carne e sulla schiavitù, e che dunque non erediterà il Regno di Dio, ci dice che il Cristo è la libertà dello spirito. Che quelli che sono in Cristo hanno crocifisso e redento la carne, camminando e vivendo secondo lo Spirito. Revolutio o renovatio, questa di Paolo, che non è adeguamento passivo ad una legge religiosa, o fanatica estinzione in una trascendente e oppressiva deità, ma segnata dalla volontà di fecondare l’uomo nuovo. L’uomo cristificato in quanto ha avuto il coraggio di sperimentare il potere resurrettivo come atto di massima libertà e di radicale autocoscienza attuantesi. La coscienza che essenzia l’azione di questo uomo è l’Amore.

Il sangue individuale, nella nuova Alleanza, è cristificato e sacralizzato da questa azione eroica e risurrettiva del vero cristiano. La comunità cristiana concepita da Paolo, retta dalla prassi misterica dell’Amore che vince la morte, è il simbolo terreno della nuova alleanza.

A tale comunità è dato divenire “Israele”, corpo del Logos. Autentico “popolo eletto”: oltre i vincoli della Legge, dell’astratto dogma, del sangue etnico ereditato, non sacralizzato e non cristificato.



Luca Fantini

5 febbraio 2009

Dottore di ricerca in “storia della filosofia”, collabora con la Redazione di TerraSantaLibera.org come esperto di storia e di storia della filosofia, con particolare attenzione alla questione giudaica.

Link a questa pagina : http://www.terrasantalibera.org/CristianesimoPaolino-L.Fantini.htm


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NOTE

[1] Paul and the People of Israel, New Testament Studies 24 (1977), pp. 4-39

[2] Op. Cit., pp. 19-20.

[3] Op. Cit., pag. 24.

[4] A radical Jew: Paul and the Politics of identity, Los Angeles Berkeley 1994.

[5] Op. Cit., pp. 13-15.

[6] Op. Cit., pag. 61.

[7] E. P. Sanders, Paolo, la legge e il popolo giudaico, Brescia 1989, pag. 68 n. 63

[8] D.B. Capes, Old Testament Yahweh Texts in Paul’s Christology, Tubingen 1992, pp. 181-183

[9] E. P. Sanders, Op. Cit., pag. 251.

[10] G. Iossa, Giudei o Cristiani?, Brescia 2004, pag. 140.

[11] E. P. Sanders, Op. Cit., pp. 296-300.

[12] W.A. Meeks, Breaking away: Three New Testament Pictures of Christianity’s separation from the Jewish Communities, Chico 1985, pp. 106 e segg.

[13] E. P. Sanders, Op. Cit., pag. 334.

[14] Galati 2, 19-20. In S. Cipriani, Le lettere di Paolo, Assisi 1999, pp. 363-364.

[15] R. Fabris, Paolo di Tarso, Milano 2008, pag. 248.



continua...



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